domenica 4 dicembre 2011

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La sua chitarra sta piangendo. Gentilmente. Mentre Lidiota resta immobile con la sigaretta come fosse un ramoscello dei ramoscelli che ha come dita. Immobile, come premere Pause sulla scena in cui Amelie finalmente è sul di lui motorino.
Ghiacciata. Morta, secca chè nemmeno le lacrime riescono a rigarle il volto. E le si sono aggrumate sotto la pelle. Voi le chiamate occhiaie. Altrochè. Lidiota abbracciò l’uomo della sua vita e si commosse quel giorno in cui alla televisione dissero che George Harrison era morto. E lei non era pronta.
Una frenata. Cade la cenere, si spezza la perfetta armonia di quella ramificazione tabacco-digitale, irripetibile.
Pensa a quando quella sera dopo l’ennesima canzone dei Beatles pensarono che dovevano sposarsi. E lei se lo fece ripetere 4 volte almeno. Lui però è l’amico bellissimo che non trova mai. Che non cerca come dovrebbe. Lidiota è schiva. Sempre ad aver paura di tutto.
A raccogliere la cenere, a nascondere il volto deformato dalla cognizione del dolore che dovrebbe provare, che non riesce a viversi. Gli eventi, quando hanno quei  moti irrefrenabili di egocentrismo, possono portarti così lontano dal tuo naturale stato… spesso uno si trova a sorridere perché succedono cose. E devi rimandare, rimandare il meritato e sacrosanto momento di dolore a tempi più propizi. Quelli in cui potrai chiudere la porta, sicuro di non sbatterla in faccia a nessuno, a niente. Sicuro che potrai provare tutti i tipi di sofferenza, e nessuno avrà da ridire, nessuno lo troverà insano, nessuno proverà a negare la legittimità di quello che è solo un intoccabile diritto.
Lidiota sente l’odore del legno di quel mattino. Il legno come coperta d’amore, rifugio imperscrutabile di anime che proprio non riescono a perdersi.
Lidiota. Questo fantastico animale da sagra di paese.

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