Il ristorante giapponese è un’esperienza positiva se stai per morire di peste e allora dalla vita non ti aspetti più nulla.
Ti portano sto menu tutto impiastricciato con le foto delle pietanze scattate dal fotografo delle lattine Pedigree Pal,
tu chiudi gli occhi e scegli a cazzo di cane tanto se non sono granchi
vivi che ti camminano lungo il corpo sono gamberi semoventi ficcati di
forza in un rotolino di riso con lo scotch nero isolante intorno.
Persa nelle insidiose volute del menu, mi vedo arrivare una giapponese
con una tavoletta di legno con su un asciugamano arrotolato e umido. È
per lavarsi le mani, dice. Ci puliamo le mani come le mamme puliscono i
bambini dopo avergli cambiato il pannolino per strada su fasciatoi di
fortuna, poi, schifati come le mamme a cui resta in mano quel pannolino
pieno del dono del suo bambino, ordiniamo.
Arriva il tofu fritto con su delle cose marroni che si muovono come
cavallette. Mi dicono che sono foglie di non so che cazzo e che si
muovono per il calore. Secondo me erano cavallette. Nessuna forchetta,
quindi mi aggrappo a queste bacchette e inizio a combattere contro la
budinosità di questi quadratini. Che, ahimè, saltavano dal piatto perché
le cavallette ovviamente erano vive.
Quel che ho preso dopo non lo ricordo perché ho ingoiato tutto in 6 secondi netti, tipo olio di ricino.
Il resto della serata l’abbiamo passato a mangiare un uovo di pasqua da mezzo chilo.
Dice che c’era una sorpresa dentro. Vi farò sapere.
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